Dott.ssa Marika De Tullio

Via Alessandro Maria Calefati 177, 70122, Bari
Via Alessandro Maria Calefati 177
70122, Bari

Nutrizionista Bari

Il mio primo approccio al mondo degli alimenti e della nutrizione è cominciato durante il corso di laurea prima triennale e poi magistrale, in “Scienze e Tecnologie Alimentari” presso la Facoltà degli studi di Bari: durante i miei studi su alimenti e filiere alimentari, ho pian piano scoperto e compreso come dietro un semplice alimento si nasconda un intero mondo in grado di influenzare, positivamente o negativamente, la salute dei consumatori.

Tali conferme si sono poi man mano consolidate con il master in “Sicurezza, Certificazione e Comunicazione Alimentare”, in particolare durante lo stage in ARPA Puglia, nell’unità operativa di biologia molecolare e di microbiologia: analizzavo ogni giorno alimenti per accertarmi che non fossero geneticamente modificati e/o che non fossero contaminati da microrganismi patogeni.

E ad ogni analisi, la domanda che incalzava sempre di più nella mia mente riguardava l’impatto degli alimenti sull’organismo umano. Da qui al corso di laurea in “Scienze della Nutrizione Umana” della Facoltà degli studi di Foggia, il passo è stato breve: non mi bastava più sapere cosa ci fosse in un alimento, la sua produzione, gli organismi di controllo.Dovevo sapere molto di più, dovevo sapere come, da un punto di vista fisiologico, un alimento potesse avere implicazioni sulla salute umana.

La laurea magistrale in scienze della nutrizione umana e il corso di alto perfezionamento professionale post-laurea in Biologia della Nutrizione presso l’Università degli studi di Bari, hanno finalmente fornito risposte esaustive in particolare a mie due domande: “un’alimentazione specifica e ben calibrata, può contribuire a prevenire le patologie? Oppure, in caso di patologia conclamata, può coadiuvare la terapia farmacologica migliorando lo stato di salute del paziente?”. La risposta ad entrambe le domande è stata più che positiva: l’alimentazione può aiutare a migliorare CONCRETAMENTE la salute dei pazienti, migliorando anche l’exitus di molte patologie.

Così, una volta laureata ed iscritta all’Ordine Nazionale dei Biologi, è iniziata la mia attività di Biologo Nutrizionista presso diversi ambulatori, seguendo i miei pazienti dal punto di vista dell’alimentazione in particolare in ambito clinico-patologico, con il confronto e la collaborazione di molti medici specialisti.

Attratta dalla possibilità di supportare, dal punto di vista alimentare, pazienti che combattevano la loro battaglia solo con i farmaci, ho iniziato ad aggiornami continuamente partecipando ad innumerevoli corsi, volti a proporre una strategia più funzionale che riguardava il trattamento nutrizionale delle patologie e anche il trattamento di diversi stati fisiologici.

Da qui la mia Mission riassunta nella parola “Nutrichange”, ossia cambia il tuo modo di alimentarti, per cambiare in meglio la tua salute e il rapporto con te stesso.

Le mie consulenze nutrizionali sono fondamentali per tutti quei pazienti che necessitano di migliorare la loro alimentazione in stati fisiologici accertati (es. gravidanza e allattamento, menopausa ecc.) o che riversano in situazioni patologiche già conclamate o che sentono semplicemente il bisogno di una corretta educazione alimentare e di uno stile di vita equilibrato nell’ottica della prevenzione.

Per questo motivo, le visite nutrizionali da me eseguite, in linea col programma NutriChange, toccano ogni ambito del vostro quotidiano, per comprendere lo stile alimentare più appropriato alle vostre necessità col fine di trovare un giusto equilibrio e un giusto compromesso tra alimentazione e salute.

2. ANAMNESI PATOLOGICA IN ATTO O REMOTA inclusa l’ANAMNESI FAMILIARE. Mi interessa conoscere l’obiettivo che il paziente si propone di raggiungere o i sintomi che pensa di poter risolvere con l’alimentazione, eventuali patologie pregresse o in atto. Alcune domande saranno poi incentrate sulla predisposizione familiare per alcune patologie, per completare l’inquadramento del paziente. In questa parte della visita, prendo visione di analisi cliniche o esami diagnostici effettuati e dei referti relative alle visite specialistiche, con la registrazione delle terapie farmacologiche e/o integrative seguite.

3. ANAMNESI ANTROPOMETRICA: attraverso la misurazione di peso, altezza, circonferenze corporee ed eventualmente pliche, e attraverso l’esame bioimpedenziometrico (BIA VECTOR) comprendo lo stato nutrizionale del paziente e l’analisi completa dei vari distretti corporei (massa magra, massa grassa, massa muscolare, % di cellule muscolari, stato di idratazione, metabolismo basale, angolo di fase). L’esame bioimpedenziometrico dura meno di 5 minuti ed al paziente è consigliato di indossare delle calze corte piuttosto che dei collant e di non applicare sulla cute del dorso della mano e del piede destro creme o olii nel giorno dell’esame. È inoltre consigliato di non mangiare almeno 3 ore prima del test e di non effettuare attività fisica subito prima dell’esame. La bioimpedenziometria è il modo più sicuro e valido per avere una panoramica approfondita del paziente.

Al termine della visita, dopo aver ottenuto un quadro chiaro e definitivo del paziente, consiglio il percorso nutrizionale più adeguato, basandomi sulle problematiche esposte, sui risultati ottenuti in merito alla composizione corporea ed alla costituzione, oltre che sulle abitudini di vita e lavoro del paziente, cercando di adattare il piano nutrizionale quanto più possibile alle sue esigenze, in termini di orari, di organizzazione familiare e lavorativa.

Il colloquio avviene a cadenza generalmente mensile, fatta eccezione per casi ed esigenze particolari, e ha una durata di circa 20 minuti: consiste innanzitutto nel chiedere al paziente le sue impressioni in merito al piano nutrizionale proposto, quali benefici ha riscontrato e/o se ha avuto problemi di qualsiasi genere ed entità. Vengono rivalutati il peso, le circonferenze e l’esame bioimpedenziometrico.

Alla fine del percorso, potrò fornire delle indicazioni di massima sull'alimentazione da seguire per aiutare il paziente nella gestione del peso e non solo, da usare come guida nel lungo termine.

Nel caso in cui il paziente si sia rivolto a me per una patologia accertata, il percorso nutrizionale sarà considerato concluso solo quando sarà presente un concreto e reale miglioramento della sintomatologia in accordo anche col proprio medico curante o medico specialista, oppure quando si raggiungerà un miglioramento dei parametri clinico-laboratoristici o strumentali, ove possibile.

“Dottoressa molto preparata, disponibile all’ascolto e soprattutto educa il paziente alla giusta alimentazione. Metodo diverso da altri nutrizionisti”

“Ho iniziato tre mesi fa il mio percorso con la Dottoressa Marika De Tullio. Già dal primo appuntamento mi ha ispirato fiducia. È sempre disponibile e soprattutto professionale. Sono molto soddisfatta di averla trovata e sicuramente mi porterà a dei buoni risultati. La consiglio.”

“La dottoressa è molto professionale e disponibile, la spiegazione e il suo modo di fare sono stati tali da spronare e motivare l’inizio di un percorso”

“Professionista seria accurata e disponibile. Puntuale nella spiegazione delle fasi di visita e dei criteri da seguire per una corretta educazione alimentare”

“La dottoressa Marika De Tullio fa parte di una ormai rara categoria di professionisti che, oltre ad essere molto preparati, prendono a cuore il proprio paziente e non lo fanno sentire più solo nell’affrontare le proprie problematiche. Mi sono sentito preso in considerazione come persona, anziché un numero e un caso, con grande beneficio anche per l’individuazione della migliore terapia praticabile”

“Per molti anni ho provato più volte a perdere peso seguendo vari nutrizionisti ma mai nessuno era riuscito a stimolarmi così tanto e far crescere in me la voglia e l’impegno di migliorarmi. Da quando ho conosciuto la Dottoressa De Tullio la mia vita è davvero cambiata. La dottoressa mi ha proposto una dieta abbastanza difficile, anche per la mia età, ma grazie al suo incoraggiamento e la forza che mi ha trasmesso l’ho seguita e affrontata al meglio. Vedendo i primi risultati ho iniziato a metterci tutta me stessa per arrivare al mio traguardo e l’obiettivo che aspettavo da anni. La strada è ancora lunga ma aver perso peso e sapere di aver avuto la forza di riuscirci, mi ha aiutato tantissimo a sapermi accettare ogni giorno di più. La dottoressa De Tullio è una persona meravigliosa che ricorderò per sempre per non avermi mai dato un motivo per mollare tutto e abbattermi, bensì aiutandomi ad essere forte e facendomi capire di potercela fare”

“Una professionista super preparata, ama il suo lavoro e non smette mai di aggiornarsi per offrire il meglio ai suoi pazienti, che segue con massima serietà e dolcezza”

“Impeccabile la dottoressa Marika De Tullio. Massima serietà e professionalità. Svolge il suo lavoro con dedizione e perizia. La consiglio a tutti!!! Con lei si raggiungono i risultati sperati”

Innanzitutto cominciamo col dire che ad oggi sono davvero in tanti a fregiarsi del titolo di “nutrizionista”: figure non abilitanti quali quelle del Nutritional coach, health coach, personal trainer, naturopati, estetiste, erboriste, giornalisti, food blogger ecc., non fatto altro che creare una grande confusione tra i pazienti. E in questa giungla di esperti e consiglieri è importantissimo capire quali siano le figure professionali che possono effettivamente dare consigli nutrizionali ed elaborare schemi dietetici, ovvero chi sono i ‘Veri Nutrizionisti’, in modo da evitare di incorrere nella consulenza di finti esperti che non hanno titoli né competenze e stanno facendo “abuso di professione”.

Allo stato attuale, la Legge dello Stato Italiano, permette solo a due tipologie di professionisti nell’ambito della nutrizione, di poter svolgere il ruolo in completa autonomia: il Medico Dietologo e il Biologo Nutrizionista.

(DM 2/4/01 MIUR – Suppl. Ord. alla G.U. n.128 del 5/6/2001, all.3, classe 3. Ministero Della Sanità. Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale del dietista. Decreto 14 settembre 1994, n. 744)

Il Biologo Nutrizionista è un soggetto in possesso di una laurea triennale e magistrale (in Scienze degli Alimenti e della Nutrizione Umana), iscritto alla Sezione A dell’Ordine Nazionale dei Biologi dopo superamento degli esami di stato. Tra le sue competenze vi è la “valutazione dei bisogni nutritivi ed energetici dell’uomo”, egli elabora e firma diete e consulenze nutrizionali in totale autonomia, prescrivendo integratori, senza la necessità di affiancare la figura del medico. A quest’ultimo ovviamente spetta la diagnosi di patologie e la prescrizione di terapie farmacologiche, test ed esami diagnostici.

(Legge 396/67 istitutiva dell’Ordine Nazionale dei Biologi, al DM 362/93 e al DPR 328/2001; Ordine Nazionale dei Biologi. FAQ-Biologo Nutrizionista. https://www.onb.it/faq-biologo-nutrizionista/. Parere del Consiglio Superiore di Sanità – seduta del 12 aprile 2011 https://www.onb.it/wp-content/uploads/2013/10/parere_css_2.pdf).

Il Dietologo è un Medico che dopo aver conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia (6 anni) si è specializzato dopo altri 4 anni in Dietologia o Scienze dell’Alimentazione. A lui compete sia la diagnosi che la prescrizione e l’elaborazione delle diete oltre che di terapie farmacologiche.

Tutti gli altri esperti e sedicenti nutrizionisti che popolano soprattutto nel mondo del web, sono quindi figure non abilitate all’esercizio della professione.

Ponete sempre attenzione a firma e timbro: saranno questi gli unici strumenti che vi potranno tornare utili nel distinguere, in prima battuta, gli abusivi dai professionisti della nutrizione. Un abusivo non firmerà mai una dieta né tantomeno risulterebbe in possesso di alcun timbro rilasciato dall’Ordine professionale. Un vero professionista, al contrario, timbrerà e firmerà sempre referti e piani alimentari, inserendo anche il numero di iscrizione all’ordine professionale di appartenenza.

Non abbiate paura nel chiedere queste fondamentali caratteristiche appena enunciate: è un vostro diritto capire a chi vi stiate rivolgendo e comprendere se la vostra salute sia a rischio oppure no.

La dieta è una sorta di abito cucito su misura su un paziente: questo abito potrà andare anche bene ad alcune persone ma per altre sarà troppo stretto o troppo largo o troppo scomodo.

La BIA è un esame molto semplice e non invasivo che viene effettuato per l’analisi qualitativa e quantitativa della composizione corporea. In particolare, la bioimpedenziometria o B.I.A. (Body Impedence Assessment), misura l’impedenza – una grandezza elettrica – del corpo umano in base alle sue capacità di condurre corrente elettrica in funzione della quantità di acqua ed elettroliti presenti.

I software dedicati, attraverso algoritmi validati scientificamente, stimano dei dati numerici sull’analisi della composizione corporea tra cui in particolare:

Il paziente si sdraia sul lettino, gli vengono posizionati gli elettrodi su una sola mano e un solo piede, e rimane sdraiato in questa posizione per circa 5-10 minuti per consentire una buona ridistribuzione dei liquidi corporei. Quindi va da sé che una analisi condotta stando in piedi non possa risultare efficace. Successivamente viene effettuato l’esame che richiede solo qualche minuto. È però importante che il paziente sia almeno a digiuno da solidi e liquidi da almeno 2-5 ore, e che sia in uno stato di riposo.

È importante effettuare l’analisi bioimpedenziometrica sia durante la prima visita che nelle visite di controllo, proprio per essere in grado di valutare, prima e dopo una dieta, cosa accade alla massa grassa e alla massa magra e a tutti i parametri precedentemente citati: è necessario, infatti, che a seguito di una dieta ad esempio dimagrante, vi sia stata una perdita esclusiva di massa grassa e non di massa magra, fattore estremamente negativo. E tutto ciò è possibile valutarlo solo con questa analisi in grado di dare una panoramica completa della composizione corporea del paziente.

Acquistare fantomatici test sul web o sottoporsi a qualsivoglia analisi da parte di alcuni farmacisti, nutrizionisti o anche estetiste, naturopati o qualsivoglia santone, non è certamente la via corretta per diagnosticare un’allergia e nemmeno un’intolleranza alimentare.

Purtroppo il proliferare di questi falsi test diagnostici per individuare intolleranze o allergie alimentari ha generato negli ultimi anni molta confusione tra i pazienti e false aspettative di dimagrimento nei soggetti in sovrappeso e obesità.

Si stima che vi sia un vero e proprio business dei TEST FAI DA TE o FALSI TEST valutato per circa 3 milioni di euro nonostante, come detto, siano totalmente inaffidabili e producano falsi positivi nel 90% dei casi per dare al paziente l’illusione che la mancata perdita di peso sia dovuta ad una qualsivoglia allergia o intolleranza.

Per insegnare ai pazienti a riconoscere le bufale nascoste dietro al business dei falsi test, l’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica – ADI, in collaborazione con le maggiori Società scientifiche (AAIITO, AIGO, AMD, ANDID, SIAAIC, SIAIP, SID, SINU, SINUPE e SIO), ha elaborato un decalogo validato dal Ministero della salute. Questa iniziativa si è resa necessaria per l’aumento delle persone che si presentano dai medici accusando gonfiore addominale e difficoltà nella digestione dopo avere seguito cure basate su risultati di test non validati (basati su campioni biologici come sangue, saliva, capelli) o dopo aver seguito diete assolutamente prive di efficacia e dannose non prescritte e gestite da medici e nutrizionisti, e quindi con rischio nutrizionale non trascurabile soprattutto nei bambini.

Per definizione l’allergia alimentare è una “malattia correlata con la produzione di anticorpi IgE specifici verso proteine alimentari con sintomi che si manifestano a breve distanza dal pasto e non sono dipendenti dalla dose di cibo assunto. Anche una minima quantità può scatenare la sintomatologia” (Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica). Si tratta di una reazione anomala del sistema immunitario che produce, per errore, anticorpi specifici contro una o più proteine contenute negli alimenti, di per sé innocue.

Poi ci sono le intolleranze alimentari. Si tratta di condizioni o legate a una riduzione di produzione di enzimi digestivi, come nel caso dell’intolleranza al lattosio, o legate a riduzione della tolleranza verso sostanze naturalmente presenti negli alimenti (istamina e tiramina) o aggiunte agli alimenti (conservanti o coloranti). Non sono legate ad anticorpi specifici e sono “dose-dipendenti”, cioè più si introducono tali sostanze e peggio è. Quindi, l’intolleranza non ha nulla a che fare con il sistema immunitario: è un problema di natura diversa (Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica).

Ma allora quali sono i test e le analisi più comuni e scientificamente valide che rappresentano il primo passo da compiere per diagnosticare un’allergia alimentare, respiratoria o cutanea?

Questo test, richiesto dal medico di base o medico specialista, prevede il dosaggio nel sangue delle IgE totali e delle IgE specifiche, ovvero degli anticorpi che si attivano in caso di reazione allergica. Se il test delle IgE risulta negativo significa che l’alimento/allergene testato non provoca una produzione anomala di anticorpi IgE e che quindi il corpo tollera quel cibo; se positivo, invece, potrebbe indicare la presenza di una vera e propria allergia o la sensibilizzazione verso quell’allergene specifico.

Entrambi sono test cutanei ma il primo utilizza estratti allergenici, mentre per il secondo si usano alimenti freschi. Questi esami necessitano di una prescrizione specialistica, in quanto devono essere effettuati in un ambiente sicuro e da personale qualificato alla gestione di reazioni abnormi e di anafilassi (shock-anafilattico).

Così come i test del sangue, anche in questo caso, l’esito positivo potrebbe testimoniare o la sensibilizzazione verso la componente analizzata o una vera e propria allergia.

Quando la combinazione tra le analisi precedentemente indicate e le visite mediche necessita di un approfondimento, ci si può sottoporre ad ulteriori test più specifici e mirati.

Alcuni di questi sono, ad esempio, i test in vivo di scatenamento orale e delle componenti molecolari ma approfondire questo argomento significherebbe entrare in un ambito medico più specialistico che non può e non deve essere trattato se non appunto da un medico specialista in campo.

Solo dopo questo importante primo passo, è possibile rivolgersi ad un nutrizionista (biologo, medico o dietista) che, sulla base di tali test, elaborerà piani alimentari specifici in base alle allergie/intolleranze individuate.

Firmatari del decalogo: Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI); Federazione Nazionale Ordine Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO); Associazione Allergologi Immunologi Italiani Territoriali e Ospedalieri (AAIITO); Associazione Italiana Gastroenterologi ed Endoscopisti Ospedalieri (AIGO); Associazione Medici Diabetologi (AMD); Associazione Nazionale Dietisti (ANDID); Società Italiana Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (SIAAIC); Società Italiana di Allergologia e Immunologia Pediatrica (SIAIP); Società Italiana di Diabetologia (SID); Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU), Società Italiana di Nutrizione Pediatrica (SINUPE).

Il latte è una delle bevande più consumate dall’uomo durante tutta la sua storia evolutiva ed i suoi benefici sono legati soprattutto alla sua composizione: esso infatti contiene potenzialmente tutti i nutrienti essenziali per la salute umana.

Nonostante la sua composizione nutrizionale completa ed ottimale, il latte è stato però più volte “accusato” di apportare danni all’organismo e molte fake news hanno cominciato a prender piede e a diffondersi, confondendo e spaventando i consumatori.

Molti timori da parte dei consumatori derivano dalla possibilità di assumere, attraverso il latte, sostanze potenzialmente dannose come ormoni o antibiotici, eventualmente somministrati agli animali da cui esso deriva, per incrementarne la crescita e la resa produttiva.

A tal proposito, occorre ricordare che il latte e tutti i prodotti lattiero-caseari sono soggetti a norme europee molto rigide che regolano la presenza di tali composti al loro interno e che impongono controlli accurati sia all’arrivo dei lotti di latte nelle aziende casearie sia lungo tutto il ciclo di lavorazione e produzione.

Tra i vari alimenti, il latte in particolare rappresenta una delle principali fonti alimentari di calcio altamente biodisponibile: numerosi studi associano perciò il suo consumo ad effetti protettivi in termini di miglioramento della densità ossea e riduzione del rischio di osteoporosi e lesioni ossee.

Tuttavia vi sono alcune teorie che ipotizzano l’esistenza di una relazione tra il consumo di latte ed un aumento del rischio di osteoporosi: in questo caso, i composti incriminati sarebbero alcune proteine contenenti aminoacidi solforati presenti nel latte. Secondo tale ipotesi, infatti, i processi di digestione di queste proteine porterebbero ad un progressivo incremento dell’acidità del sangue e al conseguente ricorso ai minerali depositati a livello osseo per ripristinare il pH ed evitare la comparsa di acidosi. Tutto ciò causerebbe un impoverimento della naturale riserva di minerali ossei ed un conseguente indebolimento del tessuto, favorendo osteoporosi e fratture.

Recentemente è emersa anche l’ipotesi di un’associazione fra il consumo di latte ed un aumento del rischio di malattie cardiovascolari: questa viene imputata principalmente al suo contenuto di acidi grassi saturi.

A tal proposito esistono pareri controversi: alcuni studi hanno infatti ipotizzato l’esistenza di tale correlazione, mentre altre ricerche sembrano associare questa bevanda ad effetti benefici sul sistema cardiovascolare. Tali risultati contrastanti potrebbero essere riconducibili alle diverse modalità con cui gli animali vengono allevati e nutriti: infatti, un recente studio ha dimostrato che il consumo di latte ricavato da bovine nutrite principalmente con foraggio e in parte con l’uso di mangimi a base di soia o mais, è correlato ad una riduzione del rischio di patologie cardiovascolari ed infarto. È bene considerare che attualmente gli allevamenti presenti sul territorio nazionale sono di questo tipo.

Alla luce di tali benefici, si sta diffondendo sul mercato il cosiddetto “latte fieno”, un particolare tipo di latte ricavato da bovini alimentati esclusivamente con erba fresca in estate, fieno in inverno e piccole quantità di cereali. A partire da marzo 2016, l’Unione Europea ha dato la possibilità di indicare sull’etichetta di questo tipo di prodotto la denominazione STG ovvero “Specialità Tradizionale Garantita”.

Un’altra recente voce di corridoio afferma che il latte sia in grado di indurre intolleranze e allergie nella gran parte degli adulti e anche dei bambini con diverse conseguenze gastrointestinali. Per quanto riguarda i piccoli, l’accusa mossa contro il latte, ha citato un dato tratto da un articolo scientifico pubblicato dalla Società dei pediatri europei, secondo cui i il 47% dei loro pazienti ha un’allergia al latte vaccino, anche se la maggior parte di questi medici ammette di non avere proceduto al dosaggio delle IgE (immunoglobuline tipo E) per confermare o meno l’allergia. C’è da aggiungere che molti “test allergologici” disponibili in farmacia o persino presso alcuni studi di nutrizionisti, hanno così tante limitazioni da non essere né condivisi né riconosciuti dalla comunità scientifica, tant’è che nel 2018 l’Ordine dei medici ha pubblicato un documento condiviso che individua diverse criticità in questi tipi di prove che purtroppo sono ancora molto diffusi.

Inoltre, l’allergia alle proteine del latte nei bambini interessa una piccola parte della popolazione, con una predisposizione genetica a sviluppare anticorpi contro certe proteine. Il problema non è quindi determinato dal latte, ma dal sistema immunitario che sbaglia. L’evoluzione di questi problemi è, però generalmente favorevole, perché col tempo i bambini acquistano tolleranza verso l’alimento inizialmente considerato allergenico. Per questo motivo i test diagnostici devono essere molto precisi e tutte le società scientifiche, compresa la federazione dell’Ordine dei medici e dei dentisti, hanno vivamente sconsigliato l’utilizzo di test facilmente reperibili anche in farmacia come il dosaggio dell’IgG e altri.

L’allergia è causata da specifici anticorpi che si possono dosare, mentre l’intolleranza al lattosio si determina solo ed esclusivamente con un test specifico, che è il Breath Test. Senza test attendibili si hanno dei falsi malati, che saranno curati in maniera inadeguata, magari con un’alimentazione inadeguata.

Tra tutte le accuse mosse contro il latte, questa è stata l’accusa che più fra tutte ha ovviamente allarmato i consumatori: il latte predispone all’insorgenza di cancro! Ma, l’ipotesi secondo cui alcuni componenti del latte possano contribuire all’insorgenza e progressione di alcune tipologie di cancro risulta infondata.

Al contrario, gli effetti protettivi del consumo di questa bevanda sono emersi per esempio nel caso del cancro colon-rettale: in particolare, uno studio ha messo in luce una riduzione del rischio di tumore al colon-retto pari a circa il 15 % in soggetti che consumano più di un bicchiere di latte al giorno (>250 ml) rispetto a chi ne consuma una quantità inferiore a 70 ml giornalieri.

Ciò potrebbe essere dovuto alla capacità del calcio sia di legare gli acidi biliari secondari, composti potenzialmente tossici e cancerogeni, sia di attivare alcuni meccanismi responsabili dell’eliminazione delle cellule neoplastiche.

In aggiunta, proprietà anti-cancerogene sarebbero state attribuite alle caseine, che costituiscono l’80% delle proteine del latte: è stata dimostrata infatti la loro capacità di inibire enzimi sintetizzati da batteri patogeni presenti a livello intestinale.

È stata questa la sentenza al termine del processo simulato al latte, organizzato dall’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Milano, svoltosi all’Abbazia di Mirasole, alle porte del capoluogo lombardo. La difesa, nella persona di Hellas Cena, medico specialista in scienze dell’alimentazione, ha precisato che il calcio del latte ha un ruolo fondamentale non solo nell’adulto ma anche nel bambino nel corso della sua crescita, per cui negare l’assunzione di latte a un bambino sano vuol dire negargli la possibilità di esprimere le proprie potenzialità di crescita, non solo a livello osseo. Questo discorso vale anche per la vitamina D, di cui siamo abbastanza carenti, perché non ci esponiamo al sole – senza la quale il calcio non si fissa alle ossa – a sufficienza e, quando lo facciamo, giustamente ci proteggiamo. C’è di più, quando le persone aumentano di peso, cresce la componente adiposa e quindi anche la quantità di vitamina D, che essendo liposolubile viene sequestrata nel grasso e di conseguenza non entra in circolo. Il latte è l’unico alimento che contiene vitamina D oltre ad avere l’acido butirrico, che ha una funzione specifica e importantissima sui microbi presenti nell’ultima parte dell’intestino.

Per tutti questi motivi, nella sentenza, il tribunale ha assolto l’imputato – il latte – perché il fatto non sussiste, come richiesto dalla difesa. Nelle motivazioni dell’assoluzione, il presidente del tribunale ha scritto di ritenere che “non esistono ad oggi studi accreditati presso le più autorevoli comunità scientifiche, che evidenzino una caratteristica di pericolosità per la salute per l’alimento latte. In particolare, con riferimento a intolleranze e allergie, è stato accertato che si tratta perlopiù di un fattore ascrivibile al consumatore, alle caratteristiche del consumatore e non già al prodotto di per sé. Si considera comunque per una corretta assunzione del prodotto e dell’alimento, di seguire le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità, perché l’alimento presenta comunque delle caratteristiche nutrizionali di non esaustività sul piano dell’apporto, e soprattutto deve essere assunto in relazione a variazioni che riguardano genere, età e particolari condizioni del consumatore”.

Molto spesso si sente dire che mangiare frutta alla fine dei pasti non sia una buona abitudine per differenti motivi: alcuni riferirebbero una più difficile perdita di peso, altri l’instaurarsi di sensazioni di gonfiore e sazietà. Se è pur vero che alcuni componenti della frutta, come fibre e zuccheri, possono rallentare – in misura modesta – il transito del cibo attraverso il tratto gastrointestinale, dar luogo a dei processi di fermentazione e creare un accumulo di gas nell’intestino con conseguente sensazione di gonfiore, tuttavia non esiste alcuno studio scientifico o linee guida che sconsigli di mangiare frutta dopo i pasti. Al massimo la sensazione di gonfiore e senso eccessivo di sazietà potrebbe verificarsi in coloro che hanno una particolare sensibilità intestinale e che soffrono ad esempio della sindrome dell’intestino irritabile, meteorismo ecc. Ma in generale, escluse queste condizioni, è possibile affermare che la frutta può essere tranquillamente mangiata a fine pasto.

Ovvio che non si deve esagerare con il quantitativo di frutta nella propria dieta: la SINU (Società Italiana di Nutrizione Umana) raccomanda di mangiare 2-3 porzioni di frutta al giorno in virtù del fatto che il consumo di 5 porzioni tra frutta e verdura nell’arco della giornata, è associato ad un minor rischio di patologie quali ipertensione, problemi cardiovascolari, cancro al colon ecc.

In conclusione, potete star tranquilli: mangiare frutta alla fine dei pasti non recherà danno alcuno al vostro organismo o di certo non vi farà ingrassare (a meno che non si esageri nelle quantità!). Anzi un consumo di frutta a fine pasto potrebbe solo darvi qualche beneficio in più.

Se e solo se notate che la frutta mangiata dopo pranzo e dopo cena, vi fa sentire gonfi e fastidiosi con produzione di gas, crampi allo stomaco e crampi addominali, con rallentamento cospicuo della digestione, potete spostarla negli spuntini di metà mattinata e metà pomeriggio senza alcun tipo di problema, oppure potete anche decidere di mangiarla a colazione per cominciare la giornata con un ottimo sprint energetico.

Da sempre etichettato come “alimento proibito”, una delle domande più frequenti quando si parla di uova è proprio questa: “quante uova si possono mangiare in una settimana?”. Non c’è una risposta specifica e precisa da dare ma una cosa è certa: l’uovo di gallina non va demonizzato bensì dovrebbe essere solo riconosciuto come alimento nobile ed esaltato per le proprietà nutrizionali che lo caratterizzano.

Dove sono contenuti maggiormente questi micro e macronutrienti? La maggior parte è localizzata proprio nel tuorlo: in esso, infatti, si concentra il 100% delle vitamine liposolubili ma anche della vitamina B6, dell’acido folico e della vitamina B12, e la maggior parte dei carotenoidi e degli acidi grassi essenziali, nonché più del 90% di calcio, ferro, fosforo, zinco, rame, selenio e manganese.

L’albume, invece, contiene tra il 50 e l’80% di potassio, riboflavina e proteine, e oltre l’80% di magnesio, sodio, e niacina. In proporzione, però, il volume del tuorlo è inferiore a quello dell’albume, e questo spiega perché la maggior parte delle proteine sia presente nell’albume piuttosto che nel tuorlo.

Il loro legame causale con la colesterolemia è uno degli argomenti ancora oggi più dibattuti, ma affermare che le uova facciano aumentare i livelli di colesterolo nel sangue in maniera esponenziale è assolutamente sbagliato e fuorviante. Un’affermazione anche pericolosa, che porterebbe a mangiare meno uova col rischio di privarsi di un alimento così completo, così nobile.

Diversi sono oramai gli studi che affermano che il colesterolo introdotto con gli alimenti (o esogeno) non influenzi direttamente i livelli di colesterolo ematico (o endogeno), e tutto ciò è dovuto al fatto che la sintesi endogena di colesterolo è ampiamente e finemente ben regolata a livello sia epatico che intestinale. Inoltre, è bene anche non demonizzare il colesterolo stesso, in quanto molecola di vitale importanza per l’organismo: è, infatti, precursore degli ormoni steroidei, della vitamina D, degli acidi biliari, è un componente imprescindibile delle membrane cellulari e così via.

Non è un caso che sono in crescita gli studi scientifici che dimostrano come il consumo giornaliero di uova intere non aumenti significativamente la colesterolemia: sono molti gli studiosi che hanno dimostrato, mediante diversi trials clinici randomizzati, che il consumo anche di 3 uova al giorno non determini variazione alcuna dei livelli del colesterolo ematico. La maggior parte di queste ricerche è stata condotta in relazione allo sviluppo di diabete di tipo 2, sindrome metabolica e malattie cardiovascolari (in primis aterosclerosi), e ad oggi non è stato dimostrato che un consumo di uova superiore a quello raccomandato causi o favorisca l’insorgenza di tali patologie.

Anzi, è stato persino visto che il consumo frequente di uova migliori la concentrazione dei carotenoidi, promuova l’aumento delle HDL (il famoso colesterolo buono) e la riduzione dei livelli dell’LDL o “colesterolo cattivo”.

Insomma, i risultati di questi studi – tra cui uno studio australiano molto importante “DIABEGG” – affermano l’esatto contrario delle notizie diffuse dai media e dalle linee guida che impongono un massimo di 2 uova a settimana. Al massimo, il colesterolo endogeno può aumentare solo dello 0,1-3% all’aumentare del colesterolo esogeno assunto mediante alimenti ricchi di questa molecola, tra cui, oltre le uova, il burro, le carni, ma anche crostacei e latticini. E tutto ciò perché, come detto, la maggior parte del colesterolo viene prodotto per circa l’80% dal nostro organismo e la quota rimanente viene assorbita dal cibo di origine animale che consumiamo. Se tutto funziona correttamente, più assumiamo colesterolo e meno ne produciamo e viceversa, per mantenere il giusto equilibrio di questa molecola nel nostro corpo.

Tuttavia può capitare che questo equilibrio venga interrotto con una conseguente ipercolesterolemia scatenata da cause legate alla genetica, o alla dieta qualora questa sia eccessivamente ipercalorica e/o connotata dall’introduzione di troppi grassi saturi e trans, troppi zuccheri semplici ecc., oppure legate a particolari malattie come il diabete o problemi endocrini (tiroide), o ancora al fumo o ad una nulla o scarsa attività fisica.

Per cui, in conclusione: quante uova bisogna mangiare in una settimana? La risposta è: non esiste regola alcuna su quante uova si possano mangiare al giorno o a settimana. Dipende dal soggetto e dalla sua situazione patologica e fisiologica di base, quindi dal fabbisogno individuale, dall’età, dall’attività fisica ecc. Ma una cosa è certa: mangiare uova non nuoce alla salute, per cui è inutile demonizzarle. Ovvio che, come per tutti gli alimenti, è sempre bene moderarne il consumo, ma è davvero uno spreco privare l’organismo di un alimento così completo e importante viste le sue eccellenti proprietà nutrizionali.

È bene mangiare prima alimenti crudi e poi alimenti cotti per evitare o quanto meno arginare, il fenomeno della LEUCOCITOSI DIGESTIVA, causa di gonfiore, acidità, senso di ripienezza e maldigestione.

Scoperta da un medico svizzero agli inizi del ‘900, la leucocitosi digestiva si verifica nel nostro organismo dopo circa 30-40 minuti dall’assunzione di cibi cotti: dopo il pasto aumentano i globuli bianchi nel sangue e aumenta l’infiammazione in quanto la cottura altera la struttura delle molecole presenti nei cibi rendendole irriconoscibili al nostro sistema immunitario. Questo, a sua volta, reagisce aumentando il livello dei globuli bianchi.

Mangiando un alimento crudo prima dei cibi cotti, che sia un ortaggio o anche un frutto (es. mela). L’alimento crudo apporterà enzimi che, assieme ai nostri, ci aiuterà nella digestione e assorbimento dei nutrienti, e in più preparerà il nostro sistema immunitario grazie ad una serie di panallergeni.

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Dott.ssa Marika De Tullio: Recensioni

5/5 (1 Recensioni)
S M 4 years ago

Esperienza fantastica: Finalmente dopo aver provato di tutto la Dott.ssa Marika De Tullio è riuscita ad aiutarmi e ad indirizzarmi in un percorso che mi ha fatto rinascere. Ancora grazie Dott.ssa

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